“Dei delitti e delle pene”, come saprete, è un trattato filosofico di Cesare Beccaria in cui difende appassionatamente tra le altre cose l’abolizione della pena di morte.
In Italia, non essendoci più né la pena di morte, né l’internamento negli ospedali psichiatrici giudiziari, che sono stati chiusi, il deterrente a compiere reati oggi è costituito principalmente dalla lunghezza della pena e dal tipo di carcere (duro/ordinario).
Che il carcere o le sentenze lunghe o ostative siano un metodo di rieducazione funzionale a cambiare e reinserire le persone nella società è qualcosa che viene costantemente dibattuto in criminologia e in politica, come viene dibattuta anche la struttura che deve avere il carcere per svolgere questo tipo di funzione e non essere meramente un parcheggio.
Cosa c’entra tutto questo con le persone trans? Le persone trans sono sia detenute per i reati che compiono che vittime o sopravvissute di chi le uccide o le aggredisce.
L’immaginario che circonda le persone trans, può influenzare il tipo e la lunghezza della sentenza che viene applicata a chi le uccide, quanti anni vengono scontati effettivamente e da chi, oltre che al tipo di difesa che l’imputato porta per convincere il giudice (e l’opinione pubblica se la sentenza viene riportata dalla stampa) ad avere uno sconto della pena e dall’altro lato dalla richiesta delle eventuali aggravanti da parte dell’accusa.
Dal momento che qui il tema è la rappresentazione mediatica, questo sarà un report storico (basato solo sul database degli omicidi) di chi ha ucciso le persone trans, i loro moventi e laddove il processo sia stato seguito dalla stampa anche le giustificazioni e le aggravanti.
1970-90: gli anni della vergogna e del disgusto
Innanzi tutto occorre fare una storicizzazione degli omicidi stessi. Le vittime erano principalmente italiane. Dagli anni ’70 agli anni ’90 i delitti dei quali la polizia è riuscita a scoprire il/i colpevoli erano prevalentemente femminicidi e venivano prevalentemente compiuti da persone conosciute e vicine alle donne trans, spesso il partner o l’amante (che era spesso nullatenente e veniva mantenuto dai proventi della prostituzione della donna trans) e in un caso anche una conoscenza.
Dagli anni ’80 in poi cominciano anche i delitti compiuti dai clienti con la scusa della furia omicida a causa della “scoperta” che si trattava di una donna trans e del disgusto che l’uomo ha provato.
Nell’immaginario collettivo vigeva una divisione netta tra le persone trans e il resto della società che influenzava sia la percezione che le sentenze.
I giornali descrivevano il mondo (l’abitazione, le amicizie, i bisogni, la loro occupazione) e le persone trans (come si vestivano, l’apparenza) con parole chiave ricorrenti come “vizio”, “torbido”, “squallido” e con speculazioni sulla vita criminale della vittima (come accade anche oggi quando pensano alle overdose di default), principalmente volte a far provare disgusto in chi leggeva e vergogna in chi si avvicinava al mondo trans. Per questo motivo, la difesa chiedeva e otteneva sconti di pena e attenuanti basandosi sul disgusto e sulla vergogna provata dall’imputato.
La vergogna
Ci sono un paio di casi in cui, non potendo negare l’intenzionalità, la difesa o l’imputato presentarono la vergogna come giustificazione e attenuante sia in tribunale che alla stampa durante le interviste.
G. Gagliardotto, l’assassino del cimitero di Moncalieri, si lamentò che Sofia volesse essere presentata ai familiari come la fidanzata e lo stesso copione venne ripetuto da G. Ferrieri che 5 anni dopo uccise Lilly Scaglia.
Sì, l’ho ucciso io. Gli avevo detto tante volte di non raccontare in giro che ero il suo “uomo” ma lui non ne voleva sapere. Si vantava, sembrava lo facesse apposta per farmi arrabbiare. – C. Ferrieri
Un caso anomalo rispetto a quello della vergogna è stato l’omicidio compiuto da F. Minervini. Minervini e la partner vivevano a Milano fingendo di essere sposati e la loro performance era risultata talmente credibile da tutto il vicinato perché incarnavano la normalità che rimasero molto stupiti quando avvenne l’omicidio. Lui inoltre aveva un lavoro rispettabile come guardia. Minervini disse che stava pulendo l’arma e che fu un colpo accidentale quello che partì uccidendo la partner. Non ci sono altre tracce del caso per cui non si sa se sia stato creduto o meno, però fu licenziato.
Il disgusto
Il caso più eclatante di sentenza in quegli anni è stato quello di S. Viola a cui fu commutata una pena di 7 anni ma siccome aveva chiesto il rito abbreviato 1/3 fu abbonato. Il Viola aveva pagato la sex-worker E. Bonilla Urdoneta in anticipo 50.000 lire (25 euro circa), poi, una volta scoperto che la donna era trans, voleva indietro i soldi. Ne nacque una colluttazione in cui lui l’accoltellò 30 volte perché lei aveva osato difendersi con una pistola. Una vita soppressa per 25 euro e dopo poco più di due anni era fuori. Il giudice accolse l’attenuante per la provocazione e “per l’ira di aver scoperto l’inganno” e in più concesse le attenuanti generiche.
All’interno di questo quadro dove il disgusto verso le persone trans riceve la benedizione della legge, si inseriscono anche due serial killer: Bartolomeo Galliano e Pierluigi Corio detto Maurizio. Il primo è un famoso serial killer delle prostitute, che uccide almeno due sex-workers trans in questi anni: Vanessa Panizzi e Nahir Fernandez Rodriguez e che farà parlare di sé ripetutamente per omicidi, rapine a mano armata e per le rocambolesche fughe. Il secondo è un vigile che, licenziato per frode amministrativa, comincia inspiegabilmente ad uccidere in maniera brutale. Uccise con arma da fuoco (Vito) Marino, una donna trans a Casei Gerola e poi le darà fuoco (la sua “firma”). Nonostante abbia già compiuto altri due delitti quando viene portato a processo per questo, il giudice gli dà uno sconto della pena di 4 anni da 20 anni a 16 anni.
1990-2000: i delitti più e meno famosi
Nei primi anni ’90 furono consumati alcuni dei delitti più conosciuti e famosi: quelli delle sorelle Asha e Valentina Andriani, di G. Mandanici ad opera del padre (ne ho già raccontato qui), ma cominciarono a morire sempre più spesso anche donne trans non italiane e il numero degli omicidi subì un picco.
Asha e Valentina Andriani erano due sorelle trans pugliesi che erano emigrate a Torino in cerca di lavoro e si prostituivano entrambe. Tragicamente furono uccise entrambe.
Asha morì per mano del figlio di un colonnello dell’esercito. Ometto il nome e cognome di questo sciagurato perché ho notato che lui o chi per lui ha chiesto il diritto ad essere cancellato da ogni ricerca, ma potete trovare tranquillamente il nome se fate una ricerca voi inserendo il nome di Asha o Ascia. Insieme ad almeno un complice (ma si dice che ci fosse una terza persona mai identificata) la caricarono in macchina e poi le spararono. Quasi per magia, la pena richiesta di 6 anni diventò di 2.
Valentina invece fu uccisa dal partner, che è uscito di prigione di recente e che è stato a sua volta ucciso. Il partner che la uccise per i soldi, Umberto Prinzi, fu condannato a 22 anni dopo averne occultato volutamente il cadavere per 12. Solo nel 2007, infatti, si decise ad indicare dove aveva buttato il sacco con i resti. Se pensate che all’assassino di Prinzi sono stati dati 30 anni, capirete che se dovessimo misurare il valore delle vite delle persone trans in anni di pena (e per fortuna non lo misuriamo così), ne deriverebbe che le vite trans non varrebbero quasi niente o che il loro valore dipende da chi le uccide.
Fu anche l’epoca in cui il silicone uccideva e forse se ne comprendeva ancora poco il potenziale letale. Un’estestista trans (di cui ometto tutti i nomi che ha usato) che aveva base su Parigi ma che veniva anche a Milano, Bologna, Roma ad iniettare silicone, uccise tre persone in Italia con le iniezioni di silicone e non risulta che sia mai stata arrestata qui. Ci fu una denuncia all’Interpol di un carabiniere ma poi svanì nel nulla e si ritrova traccia di lei in Brasile, arrestata all’aeroporto per detenzione di documenti falsi. Nella sentenza brasiliana si legge che era fuggita prima in Paraguai e poi in Brasile spostandosi con il partner francese e il figlio adottivo e la condanna è solo per documenti falsi. Non si sa da allora che fine abbia fatto o dove avessero trovato il figlio da adottare. Di certo è che da un lato è una storia tremenda perché ha ucciso almeno tre persone e dall’altra è anche una storia di una persona che ha creato una famiglia con prole in un momento in cui sembrava impossibile che una donna trans potesse avercela.
(Non finisce qui ma aggiornerò questo post quando posso, stay tuned)